Non escono di casa, ma amano gli eroi con missioni da compiere. Si sentono superiori agli altri, ma non sono in grado di gestire le emozioni. Sono gli Hikikomori, giovani che arrivano a vivere isolati nelle loro camere da letto per mesi o anni: non a caso il termine è preso in prestito dal giapponese e significa “stare in disparte”.
“E’ bene precisare che si tratta di una sindrome e non di un semplice problema”,
spiega a Tgcom24 Valentina Di Liberto, sociologa e fondatrice di “Hikikomori Coop Sociale Onlus”, centro che si occupa di nuove dipendenze patologiche e di problematiche relazionali.
Può succedere che i giovani, soprattutto durante l’adolescenza, abbiano difficoltà di comunicazione o di relazione. Ma quando un ragazzo diventa Hikikomori?
Dobbiamo essere di fronte a un’auto-reclusione totale da almeno sei mesi, con il conseguente ritiro dall’anno scolastico. Alla base dell’isolamento c’è sempre una fobia scolare o sociale, sono questi i primi segnali di riconoscimento.
Quali i sintomi?
I ragazzi, di età compresa tra i 12 e i 30 anni, iniziano a sentirsi inadeguati verso la società che li circonda, manifestano problemi di relazione e non si piacciono fisicamente. Si percepiscono come brutti. Poco alla volta i sintomi diventano psicosomatici, causando mal di testa o mal di pancia, generalmente prima di andare a scuola o all’università e se il problema non viene riconosciuto subito il giovane comincia ad assentarsi. E’ la prima fase dell’isolamento.
Che consiste nel chiudersi nella propria stanza, passando il tempo su internet o a giocare ai videogame.
Esatto. Il gioco è un modo per fuggire dalla realtà, specialmente per quei soggetti che, sviluppando paura verso l’esterno, hanno bisogno di avere accanto elementi rassicuranti. Proprio come i protagonisti dei videogiochi fantasy: eroi con missioni da compiere. Parallelamente, vi è anche un’altra tipologia di Hikikomori, diversa da quella appena spiegata e che tende al narcisismo: ragazzi che si considerano talmente superiori da non riuscire a confrontarsi con nessun altro. Alla base di entrambi i profili c’è la difficoltà a gestire le proprie emozioni e un brutto voto o un rimprovero da parte di un genitore diventano scogli insormontabili.
In che modo la famiglia può aiutare?
Ascoltandoli, senza sottovalutare la situazione. Un errore molto comune è quello di staccare il computer, eliminando l’ultimo strumento di comunicazione che il giovane ha col mondo esterno.
Quanti Hikikomori ci sono in Italia? Quanti in terapia da Hikikomori Coop?
Circa 100 mila, ma si tratta di una prima mappatura: il numero potrebbe salire tenendo conto che molti vivono reclusi. Il nostro centro ne segue attualmente una cinquantina.
Come avviene l’approccio coi ragazzi?
Varia da caso a caso. Se il soggetto non si è ancora isolato totalmente è possibile farlo venire al centro dove, parallelamente alla famiglia, seguirà un trattamento terapeutico: essendo di fronte a una sindrome e non a un semplice problema relazionale, va seguito un percorso clinico. In casi più seri si ricorre a interventi domiciliari, se il soggetto abita vicino Milano, oppure via Skype, come abbiamo fatto nel caso di un ragazzo marchigiano.
E’ vero che Hikikomori Coop sta pensando all’apertura di una struttura residenziale dove ospitare le persone affette dalla sindrome?
Assolutamente sì, anche se per il momento resta solo un progetto.
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